Il maltempo in Emilia-Romagna ha avuto conseguenze devastanti. Ha distrutto le vite di centinaia di persone, mettendo in ginocchio una regione italiana. In queste ore le polemiche si stanno avvicendando sotto molti punti di vista ma le foto e i post testimoniano anche un lato di assoluta importanza.
Cara Italia sei vecchia
26.000 sfollati, 622 strade chiuse, un numero impressionante di volontari a supporto di chi ha perso tutto (fonte: RAI News). La tragedia dell’Emilia-Romagna lascia un segno indelebile nella storia del nostro paese e tra ciò che è andato irrimediabilmente perduto c’è, ad esempio, parte dell’Archivio Generale del Comune di Forlì.
È importante riflettere su queste immagini e sullo sforzo che alcuni professionisti compiono quotidianamente per digitalizzare il Paese. L’Italia è in ritardo e questo concetto lo si legge spesso, un ritardo impressionante di cui ora si pagano le conseguenze. Durante il CLUSIT Security Summit del 2021 sono state riportate importanti testimonianze tra cui una, già citata in un articolo passato di questo sito.
Il nostro sistema di computer non è vecchio, è vetusto. Abbiamo sistemi operativi che non possono essere più protetti perché risalgono al 2003
Alfonso Camerini, Responsabile del servizio Logistica e Sistema informatico del Comune di Pavia
Il Corriere della Sera racconta che solo l’1% delle case sono assicurate nonostante i rischi idrogeologici a cui sono esposti molti comuni; è una questione culturale, una questione palesemente culturale perché la prevenzione non è mai stato un elemento considerato come prioritario.L’archivio di Forlì non è l’unico ad essere stato danneggiato e sono molte le sede comunali, le biblioteche, gli archivi che sono stati impietosamente attraversati dal fango e tra questi ci sono oltre 35.000 libri della biblioteca Manfrediana. Il fango ha inesorabilmente finito per attaccare le pagine rendendo difficile il lavoro di ripristino e, in taluni casi, cancellando completamente l’inchiostro dalle pagine.
L’alluvione non ha risparmiato nemmeno il seminario diocesano a San Benedetto e nemmeno l’archivio comunale di Cava. In particolare, all’interno del seminario diocesano c’erano molti libri antichi raggiunti dall’acqua: incunaboli, libri stampati nel Quattrocento, cinquecentine, seicentine. Danni inestimabili, apparentemente limitati dall’intervento dei privati che, in collaborazione con i Beni Culturali, stanno organizzando il congelamento (circa 25 gradi sotto zero) dei volumi per mantenerli integri. L’azienda che si occuperà di questo è la Orogel che, normalmente, usa le tecniche di congelamento per il comparto alimentare (frutta e verdura). C’è un articolo di approfondimento qui.
Non dimentichiamo la storia: impariamo da lei
L’Italia non è nuova ad eventi così disastrosi: forse non con l’esatta portata d’acqua ma ugualmente disastrosi.
L’alluvione del 1966 colpì in maniera gravissima l’Archivio di Stato di Firenze che allora si trovava nel palazzo degli Uffizi: oltre 5 km di documenti andarono sott’acqua. Ancora oggi sono visibili i danni causati dalla furia delle acque, come anche i risultati degli importanti interventi effettuati per recuperare i documenti. […] Subito dopo il disastroso evento, un Comitato internazionale, a grande partecipazione statunitense (il CRIA: “Committee for the Rescue of Italian Art”), raccolse importante aiuti finanziari e per tre anni retribuì giovani ricercatori stranieri che schedarono uno a uno i documenti recuperati, predisponendo oltre 10.000 schede descrittive. Crearono quindi un elenco-inventario delle carte riconosciute, riuscendo a identificare la quasi totalità dei documenti alluvionati. Per gli archivi infatti il pericolo maggiore di un simile evento, oltre al danno fisico ai singoli pezzi, è la dispersione e la confusione delle carte, con la conseguente difficoltà a ricostruire la loro identità e il loro reciproco collegamento, e quindi con la perdita del loro ordinamento tematico e cronologico, che li renderebbe inutilizzabili. Questa operazione di recupero, riconoscimento e restauro è proseguita nel tempo, fino ad oggi, sui 7 km di documentazione alluvionata, ne sono stati recuperati alla consultazione oltre 4,5 km, cioè il 65%, di cui il 60% con operazioni di restauro completo. Conseguenza decisiva e immediata della valutazione del grande disastro dell’alluvione fu la necessità di trovare una nuova collocazione per l’Archivio di Stato: e finalmente, nel 1989, è stata inaugurata la nuova sede di piazza Beccaria, con le sue strutture moderne e funzionali ed un laboratorio di restauro molto più ampio ed attrezzato del precedente. Riportare al loro aspetto originario le filze dei documenti, sia pergamencei che cartacei, recuperandone la leggibilità, comporta un lavoro tecnico specialistico, lungo e accuratissimo, fatto con precisione carta per carta, anche diverse centinaia per singolo pezzo. Si tratta di slegare ogni filza, e dopo il restauro delle carte, ricucirla con materiali naturali simili agli originali, e riconfezionarne le coperte, o utilizzando quelle recuperate e restaurate, o creandone di nuove, nel rispetto della tipologia dei materiali (cuoio, legno, pergamena, cartone).
Fonte: “Dopo l’alluvione: gli effetti del disastro in Archivio e il salvataggio dei documenti.”, Archivio di Stato di Firenze (LINK)
Digitalizzare non è opzionale
Un documento strappato in mille pezzi è un documento distrutto sia “con” che “senza” la digitalizzazione: la differenza è che la digitalizzazione permette alle informazioni di quel documento di sopravvivere. La digitalizzazione, perchè funzioni, deve rispettare principi e regole essenziali e non può essere improvvisata o essere fatta al ribasso come molte gare per servizi nevralgici del Paese. Nel 2018 si leggeva sul Sole24Ore “L’inutile digitalizzazione della PA alla modica cifra di 5 miliardi e mezzo” e la domanda che si pone Andrea Lisi è giusta “Il PNRR ci sta davvero aiutando per la digitalizzazione e la protezione dei dati nel nostro Sistema Paese?” (LINK). Una visione amara ma purtroppo molto realistica che può essere sintetizzata in una frase dell’articolo scritto da Lisi.
Ma siamo pieni di “esperti”, tutti in grado di coltivare il proprio piccolo orticello, senza alcuna visione d’insieme che la materia meriterebbe per essere un minimo governata.
La digitalizzazione non serve a salvare documenti, libri, storie, la digitalizzazione può salvare vite: può aiutare a prevenire questi disastri, può favorire una ripresa più efficace, più rapida. Non tenere in considerazione tutto questo è profondamente miope e irresponsabile.
Non inseguite le chimere di ogni singolo, puntiglioso provvedimento, ma innamoratevi dei principi generali e comprenderete molto di più di ciò che siamo e che vorremo essere nella digitalità che verrà
(A. Lisi)
2 risposte
Caro Edoardo, come si può non essere d’accordo con quanto amaramente rilevi in questo tuo significativo articolo e con le citate considerazioni di Andrea Lisi?
Ma allora qual’è l’approccio che tutti noi – in primis chi esercita, a qualsiasi livello, funzioni e compiti istituzionali – dovremmo avere?
Secondo me la risposta non può che essere una sola: dovremmo tutti comportarci secondo il principio di accountability che, come ben sappiamo, presuppone un approccio basato sulla valutazione e governo del rischio.
Caro Franco, hai ragione: il principio di accountability dovrebbe guidare le scelte di amministratori, dirigenti, dipendenti ma c’è un problema ancora più impellente del governo del rischio. C’è un problema di trasparenza, di onestà, di etica e quello è più difficile da raggiungere. Bisogna insistere, bisogna insistere soprattutto sui nuovi sindaci che si ritrovano un territorio difficile da governare, sui nuovi dipendenti che abbiano una maggior considerazione del loro ruolo e delle loro responsabilità.
Ma sì, senza dubbio l’accountability è l’unica vera strada.